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sabato, 2  maggio 2020



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I silos di Barletta: "Utensili senza storia o simboli di un futuro possibile?"
Il saggio è scritto dall'arch. Quadrato. Una riflessione inserita nel progetto avviato dai giovani architetti Cafagna e Rutigliano



Compiamo, oggi, un ulteriore piccolo passo in avanti verso quello che sarà l’evento espositivo dal titolo Nudge: l’architettura delle scelte” (a cura di Arch. Massimiliano Cafagna, Arch. Alessandra Rutigliano) proponendo un secondo saggio legato alla ricerca architettonica e storica sulla tematica dei silos. Uno spunto di riflessione complementare a quello del precedente testo (prof. arch. Antonio Alberto Clemente, Paesaggi inumani: i silos granari come monumenti) ci viene fornito dal saggio intitolato “I silos di Barletta: utensili senza storia o simboli di un futuro possibile?” scritto dal Dott. Arch. Vito Quadrato, dottore di ricerca presso il Politecnico di Bari e l'Università degli studi di RomaTre (Settore Scientifico Disciplinare: Tecnologia dell’Architettura). 

Un diverso punto di osservazione che ci consente di guardare ai silos non come architetture avulse dal contesto, ma come parti di un unicum urbano, passando dal concetto di “monumento della modernità” al ruolo di quinta urbana in relazione ai riconosciuti monumenti della storia della nostra città.

Riflessione, questa, accompagnata dalle suggestive fotografie di Ruggiero Dicorato, estratte dal volume “Barletta. Immagini di ieri e di oggi” (Russo R., Editrice Rotas, 2005), che ben descrivono il legame simbolico tra i silos granari ed il castello di Barletta.

Tra le numerose forme tecniche che punteggiano, in forma di memoria produttiva, i nostri paesaggi, quella del silo granario assume certamente degli aspetti interessanti. Il primo aspetto risiede nel suo delimitare uno spazio che esclude la presenza dell’uomo. Questo fa del silo un edificio atipico: non è “casa” dell’uomo ma di ciò che è necessario all’uomo, a differenza di altri manufatti utilitari, e rimane pertanto inaccessibile. 

Il secondo aspetto, conseguente al primo, risiede nel fatto che a differenza della fabbrica, il silo è il risultato visivo dell’atto tecnico dell’accumulare, dell’ammassare dal basso verso l’alto le derrate alimentari. La sua forma riflette in linea generale questa strumentalità: congela in un sistema di struttura l’accadere di questo accumulo, fornendoci una sorta di ‘calco’ di quella saturazione spaziale che corrisponde allo spazio interno. Ci fa venire in mente immediatamente l’idea di stoccaggio in una serie ripetuta, ricordandoci l’ammasso di bottiglie impacchettate che vedremmo in qualche reparto di un supermercato. È dunque per noi, che siamo lì a guardarlo dall’esterno, un’immagine, una scultura a tutto tondo, che ci ricorda qualcosa di familiare. Tuttavia, questa familiarità formale viene portata fuori scala, diventando al tempo stesso qualcosa di estraniante, come in un’operazione di un pittore metafisico.

Pertanto, il valore che assumono i silos nel paesaggio barlettano è generato certamente dal carattere utilitario di queste costruzioni, ma occorre interrogarsi sulla possibilità che un loro possibile futuro possa dipendere da un qualcosa che non si esaurisca nella fascinazione tecnica. È proprio il parallelismo che queste fotografie ci propone con il vicino castello di Barletta a suggerirci di provare a guardare ai silos secondo un diverso punto di vista: un punto di vista fatto di comparazioni e sovrapposizioni visive. 

Come i silos, il castello di Barletta nasce con quella stessa impressione di ‘fortezza’, di difesa di un interno dall’esterno. Lo straordinario ‘mutismo’ monumentale dei bastioni così tanto cari ai barlettani, non può che ricordarci, anche solo in parte, quello dei grandi cilindri in cemento armato. In fondo è il castello stesso a nascere come struttura utilitaria: prima maniero, poi roccaforte di difesa, è difficile che la sua forma, a differenza dal castel del Monte, sia nata per stupire l’osservatore se non per intimorire gli assedianti. Secondo le stesse modalità dei silos, la costruzione del castello di Barletta è un’opera tecnica imponente: come i grandi cilindri in cemento armato la sua edificazione ha richiesto la cristallizzazione di una lunga serie di sforzi, diretti però, per usare un’espressione di Gilbert Simondon, da un “intenzione tecnica pura” (ovvero da una necessità utilitaria) e non estetica. Com’è possibile dunque che il castello abbia acquisito un valore di storicità se apparentemente non aveva alcuna intenzione di bellezza? 

In questo senso, bisogna indagare qualcosa che va oltre questo aspetto, ben descritto dal filosofo francese: “Al di là dell’utilità che farebbe di questi oggetti degli utensili, al di là di un simbolismo facile e superficiale di appartenenza ad una casta o a un luogo, bisogna sforzarsi di scoprire un senso della tecnicità sotto le immagini e i simboli, un senso della sacralità.”

Questo “senso della sacralità” è lo stesso che ha permesso alla Tour Eiffel di non essere solo una torre nata per la finalità estemporanea di rappresentare i prodigi della tecnica del ferro, durante l’Esposizione Universale. Una costruzione metallica, puramente tecnica ed estranea al contesto di Parigi è diventata improvvisamente qualcosa d’altro che una semplice Torre. Ha cioè assunto una storicità, è stata elevata a simbolo plurivalente, recidendo così il cordone ombelicale con la sua funzione originaria. Allo stesso modo, il castello di Barletta è stato trasformato da apparato di difesa militare, ad apparato di difesa dei libri (biblioteca) e della cultura (museo) diventando qualcos’altro che un semplice castello. Sarebbe quindi certamente pertinente domandarsi se i silos possano avere lo stesso destino e la stessa importanza per Barletta, così come l’ha avuta il castello. Tuttavia, credo che la risposta non sia così scontata, ma di difficile previsione ed è per questo importante farne un’occasione di riflessione collettiva. 

I silos possono diventare un simbolo, un qualcosa d’altro rispetto alla loro natura utensile? La risposta potremmo cercarla nell’origine stessa della parola simbolo che deriva dal greco σύμβολον, come ci ricorda lo stesso Simondon: “quando un viaggiatore aveva stretto delle relazioni di ospitalità con uno straniero che l’aveva accolto, non si separava dal suo ospite senza rompere in due un oggetto semplice. […] Diverse generazioni potevano passare: ci si tramandava in eredità i simboli e se un giorno uno dei discendenti di quei due uomini che avevano stretto delle relazioni di ospitalità intraprendeva il viaggio, portava con sé il sùmbolon e la coincidenza con l’altra metà dello stesso oggetto originale rivelava l’autenticità della relazione precendentemente intrecciata”.

Pertanto, i silos di Barletta sono oggi dei simboli a metà, forti del loro fascino tecnico e figurativo, ma in attesa di un completamento di senso che solo la comunità barlettana può o non può riconoscergli. Immaginarne o anche solo suggerirne un futuro possibile, al di là di quello che avverrà in futuro, rimane però un esercizio di vicinanza comunitaria, la dimostrazione di volersi prender cura del territorio.



Redazione



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